E’ davvero passata un’eternità, da quel 9 giugno 2002. Di giocatori, di presidenti (molti di questi, purtroppo, che avremmo poi successivamente maledetto per aver superato il Lisert e aver messo le tende dalle parti di Valmaura), di situazioni “emozionanti” per le innumerevoli volte che la Triestina è passata alle cronache nazionali più sul lato giudiziario che su quello sportivo: niente, ma proprio niente, è rimasto tale e quale da allora.
Quella giornata – per chi come il sottoscritto l’ha vissuta “Live” – sarà per sempre indimenticabile. E non semplicemente per il risultato sportivo, per la conquista di una B che avremmo poi mantenuto per una decina di stagioni sino a crollare nuovamente in categorie infime. No: quel 9 giugno, per i tifosi alabardati, per chi iniziò a seguire quella squadra solamente da una già epica sfida di semifinale contro lo Spezia, porta ancora in grembo ricordi straordinari. Per ognuno di noi che quella maglia la continua ad amare ancora oggi, senza il bisogno di essere nella seconda serie nazionale o di seguire la più scellerata delle mode di salire sul carro dei vincitori solamente quando le cose vanno bene.
Ricordo personalmente, a chiare tinte, come un allora ventiquattrenne Sandro e il suo gruppetto di amici si preparò a quell’evento. Tutto questo già nell’immediato post-partita di andata di sette giorni prima, quando il 2-0 targato dalla doppietta di Eder Baù diventò l’apripista per una settimana di grande attesa e aspettative. “Dai, è fatta!” mi disse la mia vicina di casa, incrociandola sul portone di casa quando tornai dal “Rocco”. “Non abbiamo ancora fatto niente” le risposi: subito dopo, accesi il televisore e ascoltai le stesse, medesime parole pronunciate nel dopo gara da Nicola Princivalli. Era perfettamente lampante: per conquistare la B c’era un’altra battaglia davanti a noi prima di poter festeggiare: non servì essere profeti per azzeccare pienamente quella previsione.
Ci preparammo alla grande per quella trasferta. La sera prima del grande giorno, nel mio garage, eravamo in quattro a creare e ricamare un assurdo striscione da portare a Lucca: “Fulminadi e petesoni presenti” recitava quel lenzuolo mezzo sudicio, che poi provvedemmo a esporre davanti alla scuola elementare “Ruggero Manna” di via S.Anastasio a poche ore dalla partenza, quasi speranzosi che qualche passante lo notasse. Era incredibile: si poteva essere orgogliosamente felici di un aver fatto qualcosa che qualcuno poteva definire un’idiozia? Sorridemmo, perché in cuor nostro sapevamo che in futuro non ci sarebbero state occasioni più adatte di quella, da vivere con così tanta passione.
Qualche ora dopo ci radunammo molto presto a Valmaura: i torpedoni rosso-alabardati erano pronti per partire. Finimmo in un pullman pieno zeppo di…umoristi. “Go appena magnado una brioche con la senape” fu la primissima frase che alle 7 del mattino sentimmo pronunciare da quelli che sarebbero stati i nostri compagni di viaggio. Non fu difficile capire che il tragitto per percorrere quei 453 km che ci separavano dallo stadio “Porta Elisa” sarebbe stato speciale e già indimenticabile di suo. “Ciò muli, sentì questa!”: quante volte udimmo quelle parole, dette da chi seduto un paio di posti più avanti a noi raccontò a raffica una serie infinita di barzellette più o meno sconce! Fu un modo per stemperare quella che per molti di noi fu la più grande attesa sportiva della propria vita.
Arrivati finalmente a Lucca, controllati all’entrata da un carabiniere che legge il nostro striscione e curiosamente ci chiede “Cosa significa “fulmidadi e petesoni”?”, entriamo nello spicchio di curva riservato ai tifosi alabardati. Fu immediatamente palese che – qualsiasi risultato si sarebbe poi materializzato – ce ne saremmo andati da lì fisicamente distrutti. Eravamo in tremila triestini al seguito della squadra: ancora oggi credo che chiunque fosse lì, vestito di rosso, non si sarebbe minimamente risparmiato per consumare tutta la voce in suo possesso.
Il clima che si respirava fu dir poco indescrivibile, per rumore e per colore. Si parte e siamo ben presto sotto di un gol, il successivo inserimento centrale con relativa rete di Loris Delnevo ci regala la prima gioia di quella giornata, sull’1-1. Ci rallegriamo un po’ tutti, per la prima volta quasi ci illudiamo che le cose si sarebbero potuto mettere in discesa. E naturalmente non sarà affatto così.
Allo scadere del primo tempo Marianini ci infila per la seconda volta di fila in 45 minuti: “Cazzo, troppo presto è arrivato il 2-1”, dico a chi mi è accanto. Arriva la fine della prima frazione e per la prima volta ci sediamo tutti, per riprendere fiato. Sentiamo i tifosi avversari sempre più galvanizzati, ma in curva non si molla di un centimetro anche sul 3-1 dello spauracchio Carruezzo: il suo “maledetto” colpo di testa a battere Pagotto proiettava in quel momento la Lucchese in serie B. Stacco un attimo il cervello, seguo il resto dei tempi regolamentari quasi come un automa: l’adrenalina mi annebbia la mente, immagino di non essere l’unico a sentirmi in quella maniera.
Arriviamo al 90′, con quel risultato c’è bisogno dei tempi supplementari: mi guardo attorno, vedo gente impaurita intorno a me. La sensazione che la beffa possa arrivare immediatamente dopo è palpabile. Passano 60” ed è rigore per i nostri avversari: in uno scatto d’ira, getto a terra la bandiera che avevo in mano: è il primo vero momento di sconforto di quel pomeriggio, sembra l’inizio di un incubo. Credo che mai nella mia vita ripeterò nuovamente la tonnellata di “macumbe” rivolte a Carruezzo, pronto a piantarci un palo di frassino nel cuore direttamente dagli 11 metri: l’attaccante della Lucchese è abile a spiazzare Pagotto, ma il palo respinge il pallone. In un micro-secondo riprendiamo tutti abbondantemente colore nel nostro settore di curva: è il segnale che non è finita. Una ventina di minuti più tardi rivediamo la luce: fallo di mano di un difensore toscano nella propria area, stavolta il rigore è per noi. Mi sveglio definitivamente dal torpore, vedo Gennari andare sul dischetto del penalty: nei trenta secondi che precedono il suo tiro, cala un silenzio spettrale. C’è chi, tra i miei “vicini di banco”, ha gli occhi sbarrati; il mio amico Nicola non guarda nemmeno Manolo prendere la rincorsa. Io sono là, impietrito, a seguire l’esecuzione istante per istante.
E’ gol, è gol! Ora che ci ripenso: non ho mai urlato tanto in vita mia per quel 3-2. C’è gente che si abbraccia davanti a me, chi esulta come se fosse l’ultima cosa da fare nella propria vita. E c’è chi, come il sottoscritto, che inizia ad avere i lucciconi agli occhi: un mese prima se n’era andato mio nonno, che amava il calcio e in particolar modo l’Alabarda. Il giorno dell’ultimo saluto gli sistemai una sciarpa della Triestina tra le mani: era il regalo di un nipote a ringraziare colui che lo aveva accompagnato al “Grezar” e al “Rocco” per tanti anni. Ancora oggi faccio fatica a ricordare quel mio gesto senza farmi pervadere da un filo di tristezza. E, rileggendo ciò che appena scritto, a stento trattengo qualche dannata lacrima che vuole rigarmi il volto.
La fine della partita si avvicina sempre più, segna Ciullo ed è il definitivo 3-3: scoppio fragorosamente a piangere, non ce la faccio proprio a trattenermi. C’è Chiara, la mia migliore amica, che mi vede ed esclama “Sandrin…tuo nonno…“, guardando il cielo. Lo aveva capito subito: quella partita, quel gol, aveva davvero un sapore particolare. E per me, quel momento era tutto. Non so se ci fosse stato qualcun’altro – di quei tremila triestini al seguito – che si portava dietro lo stesso tipo di emozione del sottoscritto: so solo che riuscii a godermelo a lungo, anche risalito sul pullman, completamente senza un briciolo di voce, a tal punto da non riuscire a intonare neppure una strofa dei canti di gioia scanditi dagli altri compagni di viaggio.
Il ritorno a casa, la sosta all’Autogrill dove incrociamo Amilcare Berti e l’allora d.s. Bepi Galtarossa che vengono abbracciati da qualsiasi tifoso alabardato nei paraggi, l’arrivo in Piazza Unità dove la festa biancorossa è già iniziata da ore. Indimenticabile sì, quel 9 giugno 2002. Perché divenne un punto di svolta per quella Triestina, che il campionato successivo avrebbe poi sfiorato la promozione in A. Ecco perché, a 14 anni di distanza e con tanta acqua passata sotto i ponti, i ricordi riaffiorano ancora nitidissimi.
Ancora oggi mi chiedo: sarò mai in grado di emozionarmi ancora così, per una “semplice” partita di pallone? Mi auguro di farlo, sicuramente. Però, senza vergogna alcuna, tra gli “Eroi di Lucca” che conquistarono sul campo la serie B, ho il profondo orgoglio di esserci stato anch’io, in mezzo a loro.
(immagine tratta dal sito UTS1976.com)
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